Riprendiamo l’articolo di Dario Di Vico sui numeri e rischi del mercato del lavoro. La pandemia non ha uccisi il lavoro, ma ha generato un fenomeno dei disoccupazione selettiva. I guai maggiori si intravedono fuori dal perimetro dell’industria e si appuntano sul trio giovani-donne-partite Iva. Il cambiamento nella classificazione degli occupati, deciso da tempo in sede europea, ha reso meno lineare l’interpretazione dei dati che l’Istat sforna mensilmente. Traslocare i cassaintegrati oltre i tre mesi da occupati a inattivi per un mercato del lavoro come il nostro è una discontinuità radicale, che oggi è confinata al puro monitoraggio statistico ma che in una fase successiva non potrà che implicare differenti scelte a monte. Non si dovrebbero più, per un minimo di coerenza, poter raggiungere intese favorite da dosi elefantiache di ammortizzatori sociali.
Ma al di là delle puntualizzazioni statistiche, che pure sono necessarie per evitare una comunicazione ansiogena, si può dire che la pandemia non ha ucciso il lavoro bensì per il combinato disposto della reattività delle filiere produttive e di scelte politiche mirate (il blocco dei licenziamenti) ha generato un fenomeno di disoccupazione selettiva. La cittadella del lavoro manifatturiero e in qualche modo novecentesco ha tenuto, le imprese più strutturate hanno difeso la loro posizione nelle catene del valore internazionale e così la crisi dell’occupazione si è scaricata prevalentemente sull’hinterland del lavoro ovvero giovani, donne e partite Iva. Questa piccola verità non è stata adeguatamente focalizzata in questi mesi nei quali si è discusso per lo più del timing dello sblocco dei licenziamenti e delle aperture dei ristoranti.
Molto meno si è discusso di una polarizzazione del mercato tra lavori buoni e lavori deboli che ha delle conseguenze di lungo periodo. Tanto da poter diventare il tratto di fondo delle trasformazioni che ci attendono. Nel dossier pubblicato recentemente dall’Economist, che ha fatto discutere animatamente gli addetti ai lavori e nel quale si sostiene con forza che l’avanzata dell’automazione non distruggerà l’occupazione (smentendo così decine di studi pubblicati in questi anni a cominciare dalla mitica ricerca dei professori Osborne e Frey), si propone però una fotografia dei prossimi anni in cui le distanze tra i due mercati si allargano e l’unica possibilità di conoscersi che avranno un giovane ingegnere e un rider suo coetaneo sarà quella di aprire la porta per il ritiro del cibo. Mi è capitato già in un’altra occasione di avvertire però come una visione totalmente verticale della disuguaglianza, un pugno di pochi super-privilegiati e l’esercito dei tanti retrocessi, sia più letteraria che reale. La realtà ci parla di differenti dislocazioni sul mercato dei vari segmenti della società a seconda degli shock esterni (lo abbiamo imparato catalogando dipendenti pubblici e pensionati come «i garantiti» della pandemia) e la disoccupazione selettiva rientra nel novero di queste moderne disparità. Con ciò nessuno può sottovalutare il rischio che si apra un ciclo pesante di ristrutturazioni aziendali dentro la cittadella manifatturiera ma le stime sui possibili licenziamenti di tute blu sono nettamente minori all’enfasi esibita dai commentatori improvvisati e comunque per ora sono state annunciate due sole drastiche riorganizzazioni: il gruppo Elica (elettrodomestici) e Sky Italia.
I maggiori guai oggi si intravvedono fuori dal perimetro dell’industria e si appuntano sul trio giovani-donne-partite Iva che rappresenta il cuore dell’occupazione terziaria. I rischi della polarizzazione sono purtroppo facili da individuare: tagliare le gambe a una intera generazione e ridimensionare la partecipazione femminile al lavoro invece di accrescerla. Ma, ed è questa la domanda più insidiosa, gli indirizzi del Pnrr che abbiamo presentato a Bruxelles, oltre alle coerenti scelte di fondo necessarie a far ripartire l’economia italiana, hanno concesso altrettanta attenzione al rebus del lavoro dualizzato con l’idea di chiudere la forbice? È difficile dare una risposta affermativa.
La sensazione è che il capitolo lavoro del Pnrr risenta innanzitutto di alcune contraddizioni politiche legate alle convinzioni dei ministri che si sono avvicendati alla guida del dicastero negli ultimi due governi. È vero che la nuova stesura ne ha eliminate alcune più stridenti, resta però l’illusione che basti un’iniezione di risorse su strutture largamente inefficienti come i Centri per l’impiego e portare a casa l’inclusione dei soggetti deboli del mercato.
Forse ci sarebbe voluta un’altra convinzione, quella di inserire il lavoro tra le riforme-chiave legate al Pnrr ma evidentemente non si è raggiunta dentro il governo una sufficiente condivisione sia di metodo sia di merito. Così si è preferito scommettere sulla forza trainante degli investimenti nelle due grandi transizioni, la digitale ed l’ecologica, e auspicare che l’intendenza segua. O, come si dice nel gergo degli economisti, che gli effetti positivi sgocciolino fino in basso.
Fonte: Corriere